Il mattino ha l’oro in bocca. Il mio invece ha loro, sono in tre, mi sono sopra.
Più gli istanti passano, più realizzo. Sono femmina da neppure ventiquattro ore e sto vivendo, per la seconda volta, l’incubo peggiore per una donna. Il pensiero di essere rinato per diventare controvoglia il giocattolino di qualcuno è una sensazione alquanto frustrante. Non che essere semi morto in un letto di ospedale sia meglio, ma in qualcosina in più, sì, sinceramente ci speravo.
«Tenetela ferma!»
Dicendo così, il maiale dall’ascella velenosa e dall’alito che farebbe impallidire le fogne di Calcutta molla la presa sulla gamba e arretra per liberare il fratellino. Alzo il ginocchio di scatto e vado a segno sui gioielli di famiglia.
Urla e cade all’indietro.
Gli altri due se la ridono, serrano la stretta e mi spiattellano nuovamente a terra. Cerco invano di divincolarmi, finisco riversa e faccia a terra. Mi sono sopra, ho le mani legate dietro la schiena, sento la pressione di un ginocchio sul collo ed un peso morto sul dorso.
L’odore di terra e di erba si fondono a quello del sangue. Il mio. Le lacrime mi offuscano la vista, respiro a pieni polmoni il tanfo della disperazione… Intravedo in lontananza due sagome rincorrerne una più piccola.
Forse Liz è riuscita a scappare. La cosa un po’ mi rasserena.
Io ormai sento di non avere più scampo. Mi afferrano per le caviglie, stringo i denti, mi contorco cercando di divincolarmi.
«Butta troia, adesso sei fot…»
Un tonfo, la presa si allenta.
Un peso mi cade sulle gambe, una testa mi rotola a qualche centimetro dal naso. Sopra di me un urlo disperato: «No, no! N…»
Un sibilo squarcia l’aria ed echeggia in due colpi ravvicinati. Altri due tonfi a terra. La pressione sulla schiena si attenua, la costrizione sul collo sparisce. Facendo forza sulla guancia inarco la schiena. Gattonando sulle ginocchia cerco di alzarmi. Un sonante calcio sullo stomaco mi manda nuovamente pancia all’aria.
Inizio a capire cosa prova una bistecca sulla graticola.
Perdo il fiato, spalanco la bocca per trovare ossigeno ma il respiro non arriva. Un piede mi blocca a terra schiacciandomi la carotide.
«Resta immobile o ti spezzo il collo, contrai un muscolo e sei morta!»
Una voce femminile, talmente profonda che sembra arrivare dritta dall’inferno. Un tono perentorio che non lascia spazio ad iniziative o dubbi.
Resto immobile, pietrificata.
Strizzo gli occhi nella speranza di mettere a fuoco. La polvere, la terra e le lacrime mi offuscano la vista, sono legata, stordita dal colpo in testa, ansimante per il calcio sullo stomaco… Non capisco… Sono schiacciata dalla zampa di un Diavolo o dal piede di un Angelo Nero?!
La sua corporatura è imponente. I lunghi capelli corvini riflettono il buio di una notte senza luna. Lo sguardo è fisso in avanti. Ha ben inquadrato l’obiettivo. Non mi guarda neppure, la sua attenzione va oltre il laghetto. Pianta dolcemente la spada a terra, con una mano prende l’arco che tiene a tracolla sulla schiena, con l’altra estrae una freccia dalla faretra. Il movimento è lineare, deciso, preciso. Una Dea con gli occhi viola brillanti di un demone incocca la freccia. Scocca.
Incocca nuovamente. Scocca.
Due colpi. Fredda, inespressiva, categorica.
Ripone l’arco con un unico movimento, afferra nuovamente la spada.
Mi toglie il piede dal collo e la pressione è sostituita dal gelido bruciore della lama. Sono impietrita. Il filo a contatto con la pelle brucia. Vorrei respirare a pieni polmoni ma il rischio che anche il semplice deglutire mi recida il collo è troppo alto.
«Adesso mi spieghi com’è apparsa un’Elfa Cremisi in quel vicolo… Al primo particolare che non mi torna fai la fine di questi tre!»
Forzo lo sguardo oltre ai miei piedi, tre cadaveri decapitati giacciono scomposti a terra.
L’ammassarsi dei pensieri si fa pesante, la botta in testa brucia, sanguino. I lunghi capelli neri che le ombreggiano la pelle scura esaltano i riflessi di quelle due ametiste che, inquisitorie, mi fissano. Il luccichio degli orecchini sopra le sue lunghe orecchie cattura il mio sguardo, la testa inizia a girare, sento gli occhi incrociarsi. Perdo i sensi.
Il buio, il freddo, il vuoto. Riecheggia nel nulla il bip regolare del monitor cardiaco. Distinguo lo stantuffo del respiratore sbuffare, il soffio dell’ossigeno nella maschera, il gorgoglio delle bollicine dell’umidificatore. Non vedo nulla, solo il nero più profondo. Il rimbombo dei suoni si fa via via soffocante, il vuoto nell’oscurità diviene assordante. Due fuochi viola ametista si fanno avanti dal nulla. Paura, terrore, confusione. Tutto si amalgama nel panico più nero.
Questa è sicuramente la morte. Mi abbandono…
Questa volta è finita. Sul serio, ne ho abbastanza.
«Elf… Elf… Eeeelf!!!»
Torno alla realtà accarezzata dalla dolce vocina di Liz. Apro lentamente gli occhi quasi chiedendo il permesso di essere ancora in vita. I riflessi argentati delle Orecchie Pelosine, il dolce oscillare della Codina Morbida. Non sono più legata. Agguanto quel soffice peluche e lo stringo forte al petto, sento l’odore del fieno. Scoppio a piangere, verso tutte le lacrime che ho. Sono viva, Liz è viva, il resto non conta.
«Ehi ragazzina, ti sei svegliata finalmente? Mettersi a dormire in mezzo alla foresta senza erigere una semplice barriera magica è una condanna a morte… Siete fortunate che vi tenevo d’occhio!»
L’idillio è spezzato dal rimbombare di queste parole. La voce è inconfondibile, un brivido mi sale lungo la schiena, il sangue mi si gela istantaneamente.
Il demone è lì, seduto ad un passo da me. Afferro Liz e arranco indietro trascinandola.
«Tranquilla, ci ha salvate, è un’amica!»
Le parole di Liz dovrebbero essermi di conforto ma dentro di me il terrore ancora arde vivo.
«Se avessi voluto uccidervi, lo avrei già fatto, non pensi? Mi chiamo Rose, e tu hai un sacco di cose da raccontarmi, ragazzina…»
Dicendo così si alza e abbozza una specie di sorriso inquietante. Liz non sembra per nulla spaventata da lei, è stranamente a suo agio, probabilmente, mentre ero svenuta, hanno avuto modo di parlare. Prendo questo suo segnale distensivo per buono e mi calmo un po’ anch’io.
«É da quando ho visto quella luce sul vicolo che vi sto seguendo. Cos’era? Un portale? No… Non ci sono artefatti magici in quel posto… Teletrasporto? Qualcuno si è preso la briga di usare una quantità di energia magica enorme per farti arrivare lì, deve esserci qualcosa di grosso in ballo…»
Fintanto che è impegnata nei suoi ragionamenti, io la fisso.
Non riesco ancora a capire bene se questa Rose è un Demone o un Angelo ma di una cosa sono certa: è chiaramente un’Elfa Oscura, una guerriera. Che spettacolo!
Il dorato di quella carnagione bronzea risalta ogni singolo muscolo scolpito in quel corpo statuario. Sembra dipinta. Capelli lunghi di un nero profondissimo i cui riflessi bluastri sono interrotti a tratti da delle fini treccine. Gli occhi, di un viola ametista brillante e intensissimo, danno a quella figura un’aura misteriosa e mistica, quasi da strega.
Pian piano inizio un po’ a rilassarmi, inizio a realizzare che fortunatamente, ancora una volta, il mio elfico fiore non è stato colto. Già questo mi dà un po’ di sollievo. Rose continua a parlare ma io ho l’attenzione completamente presa da altro.
Con un’arroganza ed una superiorità degne della più spocchiosa star di Hollywood le sue tette sfidano la forza di gravità senza un minimo di paura. Fiere, decise, incredibili.
«Ehi ragazzina, mi stai ascoltando?!»
«Scusami, la testa mi scoppia… Ho ancora i postumi della botta in testa…»
In realtà mi sento abbastanza bene, deve avermi anche medicato perché ho una fasciatura sulla fronte, meglio tenersi comunque una scusa pronta in caso non le piacesse qualcosa di quello che dirò.
«Allora, iniziamo dalle cose facili… Chi sei? Chi ti ha mandata qui? A che scopo un Elfo Cremisi è apparso all’improvviso dopo più di trecento anni?»
Ovviamente non ho risposte, anzi, tutte queste informazioni aggiuntive iniziano a farmi ancora più confusione. Inizio la descrizione degli eventi. A differenza di quanto raccontato a Liz, le dico anche che “Elf” è un nome che mi sono data in quanto non ricordavo neppure quello.
Dalla sua espressione non ho detto nulla che già non sapesse e, fortunatamente, la cosa non sembra crearle grossi problemi. I suoi modi appaiono ora più pacati, mi guarda senza dire una parola, come se stesse serenamente valutando l’opzione di farmi fuori…
Nel frattempo Liz zompetta allegramente dedicandosi all’attività che tanto l’ha tenuta impegnata in questi giorni. Depreda i cadaveri dei cinque tizi che Rose ha brutalmente trucidato senza scomporsi minimamente. L’espressione di una che felicemente lava la biancheria al fiume rende la scenetta discretamente grottesca. Di questo Rose non sembra sorpresa, praticamente non la calcola.
«Bene “Elf”… Facciamo una prova. Vedrai che questo ti farà capire meglio chi, e soprattutto cosa, sei. Alzati e rilassati, pensa a qualcosa di bello… Fai finta che io non ci sia.»
Dicendo così si china, rovista nel fagotto di Liz e raccoglie il grosso coltello che aveva portato via ai tizi del vicolo. Dandomi le spalle s’incammina, lentamente, verso il centro della radura.
«Rilassati e pensa a qualcosa di bello… Fai un bel respiro… Rilassati e pensa… Respira…»
In quel momento avrei potuto pensare a mille cose rilassanti. Impossibile. L’ipnotico oscillare dei suoi lunghi capelli sulla corta gonna sembrava indicarmi risoluto dove dovevo guardare. Meraviglioso.
Mentre ero assorta a non perdermi nessun particolare di quella scultorea opera d’arte, ad una trentina di metri da me Rose si ferma e si gira. Mi saluta agitando la mano come farebbero due vecchie amiche che si incontrano per fare shopping. All’improvviso lancia il coltello in aria, dritto sopra alla sua testa, afferra l’arco incocca e scocca. Il movimento è talmente veloce che non riesco neppure a pensare “sono fottuto/a”.
Un peso nel petto, un sussulto al cuore. Il silenzio. Gli occhi mi si spalancano, la visuale si schiarisce come in una foto sovraesposta. Sono morta? Mi ha infilzato il petto? Guardo Rose ed è immobile. Il paesaggio appare irreale. La freccia appena scagliata ha percorso circa metà percorso, è sospesa in aria e punta dritta verso di me. Alzo lo sguardo. Anche il coltello che prima roteava sopra la testa di Rose è ora immobile. Sembra che il tempo si sia bloccato.
Un altro tonfo sordo mi sale dal profondo del petto. Sento caldo, i battiti aumentano, l’attenzione si focalizza, l’istinto prende il sopravvento: la tigre si è svegliata, la sua rabbia inizia ad offuscarmi la mente.
Una smorfia deturpa il mio bel visino elfico. Lo sento, sto perdendo il controllo, un’ancestrale e remota pulsione si sostituisce al mio raziocinio. A rilento il mondo inizia a riprendere vita. Mi sembra di vivere in una moviola. I suoni sono ovattati e trascinati. La freccia arriva, lentamente. Sarebbe stato un centro perfetto sull’occhio sinistro ma ho tutto il tempo di scansare lentamente la testa a destra. Con calma. La freccia passa. Riesco a sentirne il sibilo, sembra lontano. Ne scruto il fusto e le piume alla base mentre la osservo nel suo lento procedere. L’ho appena schivata come se andasse al rallentatore.
Guardo verso Rose, anche i suoi movimenti appaiono rallentati. Prende il coltello ancora in volo e me lo lancia contro. L’azione prosegue senza pause e subito estrae un’altra freccia, incocca e scocca. Una manovra fulminea, frutto di un’esperienza maturata in decenni di addestramento. A me sembra di vedere un vecchio film al rallentatore.
Arriva il coltello roteando lentamente. Lo osservo. La traiettoria è dritta sulla mia fronte. Aspetto che l’impugnatura sia a mio favore e l’afferro senza indugiare, in automatico. Per fargli cambiare percorso devo applicare un’inaspettata forza. Fa molta resistenza, ma in un istante è nelle mie mani, sottomesso. Una strana sensazione mi pervade e lo scenario diviene surreale, un lampo accecante imbianca il paesaggio. Ho equipaggiato istantaneamente l’arma. Quel coltello mi sembra di possederlo da una vita. Sento che ne conosco inspiegabilmente la forma, i difetti, le imperfezioni di equilibrio, il peso.
A ruota si avvicina la seconda freccia. Senza neppure scompormi l’accompagno fuori traiettoria con il piatto della lama.
Ho lo sguardo fisso su quello che in questo momento sento essere il nemico: Rose.
Un primordiale codice innato risponde immediatamente alla minaccia: le scaglio indietro il coltello con tutta la forza che ho.
Da distante vedo Rose lasciar cadere l’arco, ha a malapena il tempo di estrarre la spada. Uno stridio assordante accompagna lo scontro delle due lame. Il coltello si conficca a terra, Rose è immobile, tiene la spada salda con due mani dritta davanti a sé… Grazie a Dio è riuscita a fermarlo.
Un altro tonfo al petto. Come se mi avessero improvvisamente tolto un telo di dosso, tutto torna a scorrere con il consueto ritmo. Resto immobile, paralizzata. Tutta la sicurezza che sentivo fino a un istante prima scompare. Torno io. Iniziano a tremarmi mani e gambe, ho paura.
Ho paura della reazione di Rose.
Con molta calma ripone la spada nel fodero, raccoglie l’arco da terra e lo rimette a tracolla. Recupera il coltello e lentamente s’incammina verso di me.
Le gambe mi cedono e mi trovo inginocchiata a terra. Tremo come una foglia al pensiero di quello che ho fatto. Mi guardo le mani, non riesco a emettere suono.
«Co… Co… Cosa…» Balbetto mentre le lacrime iniziano a solcarmi il viso.
Eccola, arriva. Rose si piazza davanti a me. Vedo solo i suoi lunghi sandali neri che s’intrecciano fino a sotto le ginocchia.
Non oso alzare lo sguardo. Chiudo gli occhi rassegnandomi inerme al mio destino. È finita. Sono morta.
«Hai passato la prova a pieni voti, Elfa Cremisi!»
Alzo lo sguardo e Rose mi sta porgendo la mano… Timidamente l’afferro, mi rimetto in piedi.
«Co… Cos’è successo…? Come ho fatto…? Pe… Perché…?»
Rose non mi lascia la mano, continua a stringere sempre più forte. Con uno strattone mi porta a sé. Le sono ad un palmo dal naso, ho il coltello alla gola. I suoi occhi ardono come due ametiste infuocate, talmente intense da toccarmi l’anima. La sua voce si fa profonda, cupa, pesante.
«Un Elfo Cremisi non si pone domande. Uccide e sopravvive solo per poter uccidere nuovamente. Non pensa, agisce. Chiunque ne abbia incontrato uno non può raccontarlo. Sono come ombre, spettri, fantasmi. Sono fatti di istinto puro. Nascono, sono addestrati e vivono solo per essere strumenti di morte, la loro furia è devastante. Nulla può fermarli prima che abbiano assolto il loro compito. Dovessero radere al suolo una città o sterminare un orfanotrofio, portano sempre a termine la loro missione. E tu Elf, dimmelo… Qual è il tuo compito?»