Memoria

Memoria

Capitolo tre

«Sono tornato.»

Ad accogliermi c’è il silenzio.

Non c’è nessuno.

Mi hanno abbandonato? Non può essere…

Cammino lungo il corridoio, mi guardo intorno. Mobili, quadri, foto, vasi, è tutto al loro posto, ma allora perché sento questa sensazione di abbandono? Sono tonato a essere un bambino di cinque anni?

Continuo a camminare, di fronte a me, su una mensola davvero piccolina, c’è una palla di neve… me l’aveva portata Francesco quella volta che andò in vacanza sulle Dolomiti. È già passato così tanto tempo, sembra ieri.

La guardo, socchiudo gli occhi, la mia mente vaga a ritroso, torna indietro, mi sto smarrendo nei ricordi. Lo vedo chiaramente.

Francesco, non troppo alto e col fisico da sollevatore di panini. È il mio migliore amico.

«Ehi, sono tornato e guarda cosa ti ho portato.» È appena tornato dal suo viaggio sulle Dolomiti, è incredibile che la sua prima tappa sia stata proprio casa mia.

Indossa ancora i vestiti invernali, che scemo, poteva cambiarsi. Ha un pesante giaccone da neve, uno di quelli con la pelliccia sintetica sul cappuccio, mi sorride, ha anche il cappello con i paraorecchie, mi fa troppo ridere vederlo così.

Afferra la borsa marrone che ha in vita e prende qualcosa, le sue mani sono avvolte da dei giganti guanti di pelle nera, sembrano consumati, deve essersi arrampicato sulle rocce con questi. Piccoli taglietti grigi si inseguivano l’uno con l’altro lungo le sue dita fino alle nocche.

Prende qualcosa dall’interno della sacca. Un regalo? Per me? Forse avrà rubato qualcosa dallo chalet in cui dormiva, lui le fa spesso queste bravate.

«Non sapevo cosa prenderti, così sono andato sul classico… tieni.»

Una pallina di vetro. All’interno c’è una grossa montagna rosa, devono essere le Dolomiti, a scuola abbiamo visto qualche documentario sulle catene montuose e cose simili.

Scuote la mano e una bufera di neve si scatenò fra le pareti di vetro, la riesco a sentire, è assurdo.

La macchia rosa viene sopraffatta dal bianco candido di quella neve artificiale.

«Allora? Ti piace?»

Sorrido, sono felice.

«Marco? Ti senti bene?» Sono a casa.

«Sì, mamma, scusami, ero… perso nei miei pensieri.»

«Tra poco è pronta la cena, ti aspettiamo. Muoviti.» Stasera no, non mi sento bene.

«Non ho fame.»

«Non iniziamo a dire stronzate, devi mangiare.» Perché deve fare sempre così?

«Lasciatemi qualcosa nel forno, la mangerò più tardi.»

Silenzio, sguardi, tensione.

Mia mamma si volta, non le va proprio a genio che si salti i pasti.

Resto lì, nel corridoio, da solo.

Non è la prima volta che rifiuto di cenare, ma questa scenetta deve succedere ogni volta. Scuoto la testa. Come se non mangiare per una sera comportasse morte certa.

Cosa ne pensi, Marco? La mammina non ha nemmeno notato il tuo bel faccino. Chissà come mai?

Poso le mani di scatto sulla mia faccia, sono ancora sporco di sangue? Questa voce? Ha ragione? Lei non si è accorta di me… perché? Possibile che non le importi?

Mi fiondo in camera mia, voglio solo farmi una lavata e dormire, ci penserà il me di domani a risolvere i problemi di oggi.

 Entro in bagno, guardo lo specchio. Ho proprio una brutta cera.

Il sangue sulla faccia è secco, sembra un tatuaggio, uno di quelli per bambini che si trovano nelle confezioni di gelati, almeno quando ero io bambino le trovavo lì. Guardo meglio, sembra proprio essere una bambinata, forse è per questo che mamma non ha detto nulla?

Apro il rubinetto e una pioggerella cade nel lavello, dovrei smontarlo e passarci dell’anticalcare, papà dice che lo farà ma sono passati già mesi, se non le faccio io le cose in questa casa non le fa nessuno.

Riempio le mie mani d’acqua e poi le apro, faccio cascare una piccola bomba d’acqua nel lavandino.

Sono ancora un bambino in fondo.

Però adesso basta, passo l’acqua sulla faccia e sfrego, voglio levare questo sangue dalla faccia, non mi piace lasciarlo lì, mi porta alla mente brutte cose…

Scuoto la testa, devo stravaccarmi sul letto, basta pensare, con una manciata di passi arrivo ai piedi del letto e mi accascio sul lenzuolo, non voglio cambiarmi, non ne ho la forza.

Mi sento debole e non capisco il perché. Esatto, perché mi sento così? Cosa è successo? Devo ripensare alla giornata, ricordare le cose non è più il mio punto di forza.

Sono andato a scuola, poi la chiamata e poi… ho trovato questa strana pietra, la prendo dalla tasca e la guardo, e quasi insieme ho incontrato quell’uomo, come si chiamava? Abed, sembra di sentire Francesco parlare inglese, mi lascio scappare un sorriso.

E mezz’ora fa cosa è successo? Ah, sì, i monopattini. Dannati coglioni, menomale che c’era Cristiano, devo mandargli un messaggio. Cristiano Fontana, non ha la foto profilo, entro nella chat, le dita mi tremano, non riesco nemmeno a scrivere un messaggio?

C-I-A-O.

Clicco su invio, solo una spunta… mi ha dato il numero sbagliato.

Hai visto? Anche lui ti ha preso per il culo…

«Cosa mi aspettavo.» Sussurro con voce flebile, ruoto il corpo, la mia pancia punta il soffitto. Chiudo gli occhi, l’ultimo ricordo è quello del barbone, non lo avevo neanche visto. Non volevo sporcargli casa, mi dispiace. Sono riuscito a fare un torto perfino a chi non ha nulla. Sono una vergogna.

Ti prego, spegniti, non ce la faccio più.

La sveglia suona.

Apro gli occhi con estrema fatica, sembra quasi che non abbia dormito.

«Marco, alzati.» Dall’esterno della camera mi raggiunge una voce, è di mia madre. Non rispondo.

Poggio le mani sul letto e spingo.

Un mezzo push-up di prima mattina, che sono un palestrato? Le mie braccia sono coperte, indosso una felpa? Strano, non dormo mai vestito.

Ho anche un pantalone addosso? Impossibile, dormo solo in mutande.

Mi guardo allo specchio, ho ancora indosso gli abiti di ieri? Alzo un braccio, mi annuso. Può andare. Fortunatamente non sudo molto, anche se ieri…

Inclino la testa. Cosa è successo ieri?

Scendo le scale, mi siedo a tavola. Afferro il pacco di biscotti, gli abbracci, li adoro. Con una mano ne prendo tre e li macino nella bocca insieme.

Ho fame.

«Se non mangi la sera questo è il risultato. Fai piano che ti strozzi.»

«Ieri non ho mangiato?»

«Già, guarda.» Mia mamma apre lo sportello del forno, prende un piatto. «Ecco qui la tua pizza, ieri non l’hai voluta.»

«Cazzo.» Non ricordo minimamente questo particolare, non ricordo nulla.

«Moderiamo il linguaggio.»

«Sì, scusa.»

Verso del caffè in una tazzina, non metto zucchero.

Confido che il sapore amaro dei chicchi in polvere possa darmi una svegliata. Assaporo l’aspro cicchetto nero. La lingua nuota nel liquido, si schianta prima con l’interno della guancia destra, sfiora le labbra chiuse e con forza si riversa anche sulla sinistra. Una scarica di schifo arriva dritta al cervello.

Però, niente, non sento niente. Avrò forse il Covid? Trascino la sedia indietro, i quattro piedi grattano il pavimento e un rumore orribile graffia la stanza.

«E alzale queste maledette sedie, la forza ce l’hai o no?» Sbuffo anche se non ha tutti i torti, alzo la sedia e  delicatamente la rimetto a posto.

Riesco solo a pensare a cosa non sia successo ieri, o a cosa sia successo, perché non ricordo nulla?

Prendo lo zaino, non ho bisogno di prepararlo, ho un trio di quaderni che uso per ogni materia. Mi bastonano. I libri? Inutili. I professori si affidano solo a quello che c’è scritto lì sopra, dimenticando, che ormai è passato un secolo da quando sono stati scritti. A me basta estrapolare il necessario e applicarlo alla realtà. Il resto non mi interessa, non ha senso saperlo.

Esco di casa, non saluto nessuno, tanto ci rivedremo stasera.

Cammino lentamente sul marciapiede, l’aria è fresca, il sole è ancora basso, menomale, il cellulare nella mia tasca vibra, infilo una mano, lo afferro, una chiamata? Cristiano Fontana?

«Pronto?»

«Marco? Sei tu?» Una voce mai sentita prima mi parla.

«S-Sì, e tu saresti?»

«Come chi sarei io? C’è scritto, no? So Cristiano.»

«Cristiano?»

«Ho capito, ieri hai fatto il piagnucolone e adesso fai finta di non conoscermi.»

«Ma io non ti conosco!» Ma che vuole questo?

«Calma, tigre. Cercherò di beccarti a scuola, ho visto che siamo nella stessa.»

«Aspetta.» La chiamata è finita. Chi è questo Cristiano?

Adesso fai finta di non ricordare, però hai una mente forte. Io lo so, lì dentro c’è tanta di quella roba… Interessante, non me lo aspettavo questo atteggiamento “difensivo”. Chissà se lo sarà abbastanza.

Questa voce nella mia testa, la ricordo, ma perché? Cosa vuole da me? E di chi è?

«Marco, buongiorno.» Una ragazza corre verso di me, mi bacia.

«C-Ci conosciamo?» Le chiedo arrossendo.

«Ovvio che no, io bacio tutti.» Mi intristisco, ora le ragazze fanno così? «Marco, ma tutto a posto? Sono io, Mary.»

«Mary?»

«Non farmi questi scherzi, lo sai che non mi piacciono, e poi me la prendo.» Afferra la mia mano, ma prontamente mi divincolo.

«Marco, che stai facendo?»

«I-Io non ti conosco. Chi sei?» Alla ragazza si riempiono gli occhi di lacrime. I suoi pugni si serrano, il suo intero corpo si serra. Fa un passo verso di me, vuole colpirmi? Indietreggio.

«Hai paura? Di me?» Mi chiede con le lacrime che iniziano a colargli sugli zigomi. Non voglio farla stare male ma non so chi sia.

Non rispondo. Un solo istante di silenzio si beffeggia di noi.

«Vaffanculo!» Urla. Corre via. Perché? Chi era quella ragazza? Mi dispiace…

Meno uno.

Di nuovo quella voce.

Entro in classe. Il mio banco, qual è il mio banco? Perché non riesco a ricordare?

«Marco, sembri uno zombie.» Un ragazzo non troppo alto, leggermente muscoloso ma un po’ rotondo mi chiama. Un nome attraversa la mia testa.

«Francesco?»

«Sì? Oggi ti vedo bello che rincoglionito. È successo qualcosa? Ieri ti ha chiamato quel Giuseppe o come si chiamava?» Troppe domande. Non rispondo, mi limito a prendere posto. «Marco», si avvicina, mi trivella gli occhi con lo sguardo. «Cosa è successo? Dimmelo.» I suoi occhi, verdi, nebbiosi ma luccicanti, non mi mollano.

«Niente, avevo… dimenticato alcune cose.» Distolgo lo sguardo.

«Cosa intendi per “dimenticato”?» Un’altra domanda, ma cosa vuole questo ragazzo? Chi crede di essere?

«Puoi lasciarmi in pace per favore?» Chiedo in maniera gentile e composta, anche se la mia pazienza sta iniziando a vacillare.

«No.»

Non rispondo, mi accascio sul banco, sono stanco, l’ho già detto?

Il mio petto preme contro il legno scadente dipinto di vernice bianca, sarà la ventesima passata che gli fanno sopra, se si scava con una penna si vedono i vari strati di vernice vecchia. Per non parlare dei suoi bordi, sono tutti diversi, sembra che sia stato torturato questo legno, sono tutti scheggiati e crepati.

 Vere e proprie trappole per i vestiti.

«Sei strano. E non come è tuo solito. Oggi lo sei per davvero.» Alzo la faccia verso Francesco, si allontana, cammina lentamente per la classe. Non lo perdo di vista, lo seguo con lo sguardo, chissà cosa vorrà fare.

Naviga fra le prime linee di banchi, scambia qualche sorriso e qualche risata. È apprezzato dalla classe.

Si divincola dal blocco centrale di banchi, lo evita palesemente. Con loro credo non voglia averci niente a che fare. Ed eccolo che si ferma, di fianco a me, di nuovo.

«Fra-.»

«È il mio posto.» Indica il banco alla mia sinistra. «Posso sedermi al mio posto? Non credi?»

«Buongiorno, ragazzi.»

«Buongiorno, professoressa.» Un coro belato e perfino più stanco di me si alza in saluto alla professoressa di… non lo so, non so nemmeno chi sia. Resto in silenzio, allargo le braccia sul banco e gli poso la testa sopra. Sono stanco.

Cosa cazzo ha Marco oggi… è così strano, non capisco. Ieri era talmente contento, prima il bel voto in matematica, poi la chiamata di lavoro. Già, dopo proverò a chiedergli di questo, è cambiato da un momento all’altro.

Lo guardo, è lì, stravaccato sul banco. Sembra devastato. Non è da lui, a quest’ora di certo starebbe con un quaderno avanti ad ordinare alla sua mano di studiare per lui, mi dice sempre che è la mano con cui prende appunti la prima a studiare. Io se prendo appunti non riesco a seguire la lezione, sono davvero un coglione, ma va bene così, è bello avere tecniche differenti.

Ma cosa gli sarà successo? I miei occhi lo analizzano, cercano di scandagliarlo da cima a fondo, per fortuna ho il banco a mezzo metro da lui. Le restrizioni Covid non sono ancora obbligatorie, menomale. Non riesco proprio ad immaginare vivere con mascherine e a metri di distanza da tutti. Rabbrividisco.

«Francesco? Vuoi che chiudiamo le finestre?»

«No. Grazie, prof.» Mi chiedo come faccia a notare ogni mio minimo movimento quella là.

Sbuffo. Vorrei riuscirci io, almeno potrei capire cosa sta passando Marco, voglio aiutarlo, rivederlo in quello stato… è fuori discussione.

Rivolgo a lui un ultimo sguardo, noto un rigonfiamento nella sua tasca. Non credo sia il cellulare, aguzzo la vista. Sembra un bozzolo. Ma credo che Marco sia un essere umano, anche se, nel caso fosse un alieno, ci divertiremmo un botto. La sua tasca inizia a brillare.

C’è sicuramente qualcosa di strano. I miei occhi scalano il suo busto, si appigliano alle pieghe della sua felpa. I suoi occhi sono puntati su di me, ma come ha fatto? Lo sapeva?

I nostri sguardi si incrociano. Riesco a mantenere il contatto solo per qualche istante, sono imbarazzato, abbasso il capo sul banco.

Dovrei scusarmi?

No.

Devo capire cosa ha in tasca, sono sicuro che il motivo del suo comportamento sia proprio lì.

La pietra della disperazione – Le catene del passato

La pietra della disperazione – Le catene del passato

Stato: Completato Tipo: , Autore: Rilascio: 2022
Una pietra, una strada, un ragazzo. Un passato da cui non si può scappare. Quando la vita sembra andare per il meglio cosa potrebbe rovinare tutto? Una presenza strana, una voce insolita, un senso di vuoto. Che sia la coscienza a scatenarsi o qualcosa di più grande? Marco lo scoprirà a sue spese e si renderà conto di come la vita sia una serie di ricordi dai quali non si può sfuggire.
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