Capitolo sette
Oggi il cielo è triste, una fredda scia di vento mi colpisce la faccia. Il sole è nascosto dietro una nube nera. Sta per piovere. Sono devastato. Ieri, quando ho saputo la notizia, volevo cavarmi gli occhi.
Non lo avrei mai voluto vedere così. Steso in una bara. Senza vita.
«Oggi vogliamo ricordare Marco, un giovane ragazzo che ha perso la vita proprio la scorsa notte.» Il sacerdote ha un’espressione imparziale. sembra che la faccenda non gli riguardi. Forse sarà abituato a situazioni del genere, fa parte del suo lavoro, infondo.
Sono al primo banco, vicino alla mamma di Marco. Quella donna non smette di piangere, vedo le lacrime che piovono sul legno scuro, lo bagnano.
Prendo un fazzoletto dalla tasca, glielo porgo. Cerca di sorridermi, è sempre stata una brava madre, ha cercato di aiutare suo figlio, sempre, si è dannata per non aver capito subito cosa gli fosse stato fatto quando era solo un bambino.
Ma come poteva accorgersene? Marco era un maestro nell’occultare il suo malessere, nessuno di noi poteva mai immaginarlo.
Sto piangendo anche io, è sbagliato?
No, cazzo, è normale, le emozioni sono fatte per essere accolte ed esternate, dopo quello che è successo non le reprimerò mai più.
Adesso posso piangere, devo piangere, ne sento il bisogno.
Alzo gli occhi, fermo le lacrime per un singolo istante, la chiesa dove siamo è una di quelle antichissime che risalgono a centinaia di anni a dietro; è altissima e si chiude in una stupenda cupola tappezzata di affreschi, chissà con quale stile sono stati fatti, non ne ho idea, ero una capra in arte.
Però, tutto sommato, è una bella chiesa.
Nel banco appena dietro al nostro c’è Mary, sta piangendo, credo abbia iniziato ieri notte. Non ha smesso neanche per un istante. Lo amava davvero. Ne sono certo. È assurdo che Marco l’abbia trattata in quel modo, non lo avrebbe mai fatto.
Sferro un pugno nel legno, lo scheggio. È assurdo che io gli abbia detto di non chiamarla, di aspettare domani, di lasciarla stare, credevo che ci fosse tempo.
Il sacerdote mi guarda con sufficienza, non dice nulla. Non può interrompere di certo il rito per dirmi qualcosa, probabilmente dopo mi rimprovererà ma non mi interessa. Le mie nocche si sono sbucciate, iniziano a sanguinare.
Abbandono il mio posto, mi allontano, dovrei inchinarmi? Chiedere permesso a questo dio che permette tutto questo? Do le spalle a tutto e percorro la navata centrale.
Molti mi guardano, ma non do peso ai loro sguardi. Non capirebbero.
Arrivo all’entrata della chiesa, c’è un tizio vestito di nero, è appoggiato ad una colonna, lo ignoro, sarà qualche coglione che andava dietro a sua madre.
Mi inchino, lo faccio solo per lui, solo per il mio amico che è là dentro, lo saluto per un ultima volta. Devo portare rispetto almeno a lui. È l’unico che lo merita. Provo a sorridere, ci rivedremo Marco.
Metto piede fuori dalle enormi porte.
«Ciao.» Un ragazzo dai capelli lunghi è fuori, mi si avvicina. «Condoglianze.» Tende la mano verso di me.
«G-Grazie.» Gliela stringo, ci guardiamo. Cosa posso rispondere? Come si deve rispondere?
«Perché non disinfettiamo questa mano?» Osservo le mie dita, sono coperte di pezzettini di legno e sangue. «Vieni, ti porto a casa mia.»
«Come ti chiami?»
«Sono Cristiano, piacere di conoscerti.»
Cristiano… non l’ho mai sentito, chissà chi è. La chiesa era gremita di persone, Marco era importante per ognuna di loro, tutti i nostri compagni di classe, i nostri professori, i suoi parenti. Era diventato un’ancora per tutti loro. Lo volevamo bene, tutti. E lui era l’unico che non riusciva a rendersene conto? C’è qualcosa che non mi quadra minimamente. Non può essere successo tutto per caso.
«T-Tu s-sei C-Cristiano?» Mary, singhiozzando, si rivolge al ragazzo che è davanti a me. Anche lei è uscita dalla chiesa, mi avrà seguita, credo sia arrivata al limite.
«Sì, dovevo dirti una cosa, anzi, devo solo comunicartela, sono parole rivolte da Marco: “Mi dispiace”. Nient’altro.»
Restiamo in silenzio, tutti e tre, non parliamo. Il vento soffia sulle nostre teste, qualche foglia secca cavalca quelle correnti e volteggia nell’aria. Lacrime, sulla mia faccia, lacrime su quella di Cristiano e lacrime su quella di Mary.
Nient’altro che Lacrime.
«Eppure, credevo che ce l’avrebbe fatta. In lui avevo visto quel qualcosa… Credevo fosse come me, come noi.» Un uomo è appoggiato a una delle prime colonne proprio all’entrata della chiesa. Indossa una giacca nera, ha gli occhiali da sole, sembra un uomo d’affari. Si volta, esce dalla struttura. «Mi dispiace, Marco. Non sono riuscito a salvarti.» Si inchina, fuori la chiesa ci sono tre ragazzi che piangono. È naturale.
«Mi scusi, devo chiederle una cosa.»
«Oggi è stata davvero una bella giornata, a scuola sono stata la prima della classe nel compito di scienze, Luigi mi ha finalmente chiesto di mettermi con lui e papà mi ha detto che posso aiutarlo a lavoro. Cazzo, sì.» Cammino per le strade di Roma, quelle che percorro ogni giorno.
Sono così bizzarre, c’è di tutto, negozi, ristoranti, persone diversissime. Amo vedere tutte queste cose. Sono davvero felice.
Il mio sguardo si sofferma su un pezzo di strada, del gessetto bianco tratteggia l’asfalto, una sagoma è disegnata a terra. Riesco a vedere anche il rosso del sangue secco.
Questo deve essere l’incidente di ieri notte, una tragedia. Ma come si fa a suicidarsi così? Non ha pensato alla sua famiglia, ai suoi amici e a tutte le persone che gli volevano bene? Io non credo ci riuscirei mai. Scuoto la testa, non voglio pensarci. Voglio rientrare nelle mie good vibes.
Sì, via tutti questi pensieri cupi e tristi, sciò, questa è la mia vita e voglio viverla al meglio.
Ho gli occhi fissi sulla strada, non voglio farmi distrarre da nient’altro.
E quello cos’è?
Uno strano luccichio mi cattura, è così bello… rallento, sento perfettamente la suola dei mie stivali premere sui sassi spigolosi. È una fortuna che indossi sempre scarpe del genere, così non mi faranno mai male quei dannati lastroni, potrebbero fare qualcosa però.
Piego le gambe, avvicino la mia mano e le dita sfiorano la fonte di quella luce. Una piccola pietra, di colore blu, incisa da piccolissime chiazze verdi, sembra proprio il colore del vomito. La raccolgo, soppeso la mano, e a mia sorpresa quell’oggetto è più pesante di quello che mi aspettassi. Che strano, non avevo mai visto una pietra del genere. Mi rialzo di scatto.
D’improvviso le ginocchia cedono, le braccia tremano, la testa freme, le orecchie fischiano. Il mio intero corpo agonizza, lasciandomi cadere a terra. Sbatto la tempia con un colpo sordo, lo sento, è come se mi vedessi dall’alto. Cosa sta succedendo?
Chiudo gli occhi.
Ma chi ti credi di essere? Solo perché hai preso un buon voto, solo perché ora tuo papà riconosce la tua bravura, solo perché c’è un ragazzo che vuole fidanzarsi con te. Pensi di stare davvero bene? Cresci! Svegliati. Tu stai male e lo starai per sempre. Sei inutile, tu e la tua misera vita sono inutili. Non mi credi? Dammi un po’ di tempo e ti aprirò gli occhi. Ti mostrerò la realtà che fai fatica a non vedere.