Capitolo uno
Il vento soffia sulla mia faccia, l’aria è così fresca, chiudo gli occhi, vorrei tanto essere al mare.
Cammino sul marciapiede, e le macchine mi tengono compagnia, proprio oggi doveva scadermi l’abbonamento a Spotify? Con YouTube è impossibile ascoltare la musica, non ho idea di quando vorranno farci uscire dal mesozoico e farlo funzionare anche con lo schermo bloccato, perché col cazzo che pago l’abbonamento a YouTube music, mi basta questo.
Scuoto la testa, guardo il tramonto, è la prima volta che esco così tardi da scuola quest’anno, maledetti professori che vogliono una mano a controllare dei compiti, “solo per cinque minuti”, ma per favore.
Ficco una mano in tasca, indosso dei jeans un po’ troppo stretti, mia madre ha detto che mi stanno bene, peccato che a me non piacciano proprio. Ah, che mi tocca fare per renderla felice.
Nella tasca c’è un campo minato, cuffiette ingarbugliate, spiccioli di vario taglio, le chiavi di casa, c’è di tutto, magari trovo anche qualcosa da mangiare.
Afferro il cellulare, prima ha vibrato, sicuramente è arrivata qualche notifica, vediamo chi è che rompe i coglioni. Lo porto davanti agli occhi, abbasso la tendina con il dito.
Grazie, Marco, sei stato il migliore al compito. Senza di te non ce l’avrei mai fatta.
Giulia, non c’è di che. È una ragazza che mette l’anima quando studia ma la matematica è qualcosa che proprio non le entra in testa, e come darle torto, arrivati a un certo punto sembra di star facendo italiano.
Sorrido.
Lo schermo diventa nero un attimo prima di illuminarsi di blu, poi una scritta verde.
«Pronto?»
«Ciao, Marco, sono Michele, quello della ferramenta. Guarda volevo dirti che il tuo periodo di prova è finito…»
«Capisco.» Resto zitto per un istante, finisce tutto così? Respiro. «Mi spiace di non essere stato all’altezza.»
«… in verità vorrei che iniziassi a lavorare per noi part-time. Hai fatto un’ottima impressione al direttore e ti vuole assolutamente nella nostra compagnia.»
Sto nuovamente zitto, pigio il muto.
«Sì, cazzo! Finalmente!» Riattivo il microfono. «C-certo, sono contentissimo.»
«Perfetto, allora quando sei disponibile per ufficializzare il contratto? È qualcosa di molto tranquillo, sono solo un paio d’ore a settimana e poi le restanti, beh, vediamo insieme.»
«È qualcosa per iniziare, lo capisco, domani è possibile?»
«Sì, allora a domani, ti aspetto per le 16 e 30.»
«Grazie.»
Il cellulare pulsa un ultima volta, la chiamata è finita.
Un trillo spento fischia nelle mie orecchie: è il trillo di tutte quelle ditte che mi hanno chiuso le porte in faccia perché “Hai solo diciassette anni, non puoi lavorare. Non hai esperienza. Sei solo un costo per noi.” Serro i pugni, stringo il labbro fra i denti, i miei incisivi affondano nella carne.
«Erano tutte cazzate.»
Ce l’ho fatta.
Sono sicuro che tutti quei coglioni non mi volessero a lavorare perché erano incapaci di insegnarmi qualcosa, almeno loro sono stati diretti.
Porto gli occhi sui ciottoli della strada, adoro soffermarmi a guardare quello che c’è sotto ai miei piedi, mi dà un senso di “grandezza”.
I ciottoli sono tutti diversi, tutti sconnessi. Non è una novità, alla fine Roma è fatta così. C’è chi la chiama arte, chi la chiama storia e chi, ancora, la chiama incompetenza comunale. Io la chiamo “particolare”.
Ho viaggiato molto, ho calpestato molte strade e questa qui, la mia terra, è imparagonabile e non perché ci sono dei crateri qua e là, no. Sorrido.
«Questa è casa mia.» Sussurro con un filo di voce.
«E tu invece sei la mia di casa.» Due braccia nude, leggere e, soprattutto, profumate, si chiudono attorno la mia vita. Un forte odore di frutti di bosco mi prende a pugni il naso. Lo adoro, la adoro.
«Mary.» Mi volto, abbasso la testa e bacio la ragazza che mi ha appena catturato.
«Vedo che ti sono mancata.» Mi sorride e ricambia il bacio, per arrivare alla mia bocca deve mettersi sulle punte, è così carina quando lo fa. «Allora, cosa mi racconti? Sei scappato subito dopo la scuola, non volevi salutarmi?»
«Ma no, il professore di economia mi ha bloccato a revisionare dei compiti, e poi… aspettavo una chiamata.»
«Già mi tradisci?» I suoi occhi si assottigliano e il labbro si increspa leggermente, ma perché dovrei tradirla? Dopo mesi insieme ancora pensa che io possa fare una cosa del genere? Già è stato difficile trovare una donna, figuriamoci due.
«Mi hai scoperto. Si chiama Amanda, non puoi capire… una cavalla dai capelli neri.» Un pugno mi colpisce l’addome.
«Stronzo…»
«Era una chiamata di lavoro, Mary, nessuna cavalla. Purtroppo.» Un’occhiataccia mi trafigge le retine, raggiunge la mia anima da fidanzato, forse ho esagerato un pochino.
«E come è andata? Buone notizie?»
«Già! Se tutto va bene, nel giro di poco tempo dovrei iniziare a tutti gli effetti. Ormai ho fatto pratica e bene o male credo di poterli aiutare a gestire una parte di contabilità interna.»
«Che coglioni, ehm, congratulazioni.» Sorride, ha un’espressione davvero buffa.
A lei non piacciono i conti e la matematica in generale. Neanche quella base come addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni. Non capisce che è questa la matematica che serve nella vita. «Scherzo. Sono davvero fiera di te. Spero ti piacerà.»
«Credo di sì, lo sai, adoro fare questa roba. Però alla fine lavoro per avere qualche soldo da parte, ho te. In qualche modo devo portarti a cena fuori, comprarti cose, e non posso nemmeno andare a rubare dato che non sono un grande ladro, magari essere Lupin. Io mi farei sgamare al primo colpo. Devo lavorare per forza.»
«Ancora con questa storia? Tu non mi devi portare da nessuna parte. Se vogliamo andare, ovunque sia, ci andiamo. Non c’è bisogno che offri sempre le cose.»
«Che vuoi farci, sarà forse la mia galanteria assopita a parlare? In fondo tu sei una ragazza stupenda.»
«Vaffanculo, Marco.» Un solco splendente nasce sulle labbra di Mary, la sua bocca è così piccina, sembra disegnata a matita. Si volta velocemente e i suoi i capelli neri, non troppo lunghi, volteggiano nella brezza di città. Smog e polveri sottili, la mia preferita.
«Io vado, e chissà, forse domani sarò io a portare te da qualche parte.»
«Oh, oh.»
«Anche se non sei un modello da sfilata.» Mi indica, «Sarà forse la mia forza imprenditrice a parlare?» Inizia a camminare via. Le sue gambe sono lunghe e slanciate e vanno in contrapposizione al suo tronco, piccolo e minuto. I suoi stivali marroni frustano i sassolini e li fanno saltare via.
«Finalmente una ragazza cazzuta.» La osservo, quanto cazzo è bella. «Come ha fatto a mettersi con uno come me?»
Alzo lo sguardo e il sole è quasi del tutto tramontato, meglio che mi muova a tornare a casa, stasera c’è la pizza. Non vedo l’ora di mangiarla. Quando cala la sera sono sempre stanco e ho voglia di sbranare tutto ciò che trovo come un porco.
Metto le mani in tasca, rabbrividisco, ho freddo? Nah, sarà solo un brivido di quelli random, sbatto le palpebre, ho gli occhi fissi sulla strada.
E quello?
Uno strano luccichio mi cattura, si nasconde in mezzo ai ciottoli.
Cammino verso di lui, sento perfettamente la suola delle mie sneakers premere sui sassi spigolosi, a volte sembra di camminare a piedi nudi. Mi chino, porto la mano avanti, le dita toccano quella fonte di luce.
Una piccola pietra, scarlatta, incisa da una serie di leggere striature bianche.
La afferro, è pesante? Sarà quasi mezzo chilo, può essere? Non ho mai visto nulla del genere.
Smetto di pormi domande e mi rialzo.
D’improvviso le ginocchia cedono, le braccia tremano, la testa freme, le orecchie fischiano. Il mio intero corpo agonizza, lasciandomi cadere a terra. Sbatto la tempia con un colpo sordo, lo sento, è come se mi vedessi dall’alto. Cosa sta succedendo?
Chiudo gli occhi.
Ma chi ti credi di essere? Solo perché sei bravo a scuola, solo perché ora hai un lavoro, solo perché hai una ragazza, pensi davvero di stare bene? Cresci! Svegliati, coglione. Tu stai male e lo starai per sempre. Sei inutile, tu e la tua misera vita sono inutili. Non mi credi? Dammi un po’ di tempo e ti aprirò gli occhi. Ti mostrerò la realtà che fai fatica a non vedere, la realtà che hai cancellato.
«Ragazzo, ragazzo, stai bene?» Sono seduto, ho la schiena poggiata a un muretto, la mia mano trema, dentro c’è qualcosa. «Ragazzo?» Sposto lentamente lo sguardo; un uomo, ha la pelle scura e la testa tappezzata da graziose treccine. Sembra un ananas.
Indossa un elegante completo nero, sarà un man in black?
Mi tocco la fronte con la mano libera, non fa male.
«S-Sto bene, g-grazie.»
«Vuoi che chiami un’ambulanza? Sarà qui in pochissimo tempo, lasciami prendere il cellula-»
«No!» Perché sto urlando?
«Va bene…» L’uomo mi guarda perplesso, incontra i miei occhi. Abbasso lo sguardo, non voglio guardarlo, mi sento strano. «…io sono in quel bar lì difronte per ancora cinque minuti. Se hai bisogno di aiuto, non esitare ad entrare. Mi chiamo Abed.»
Cosa devo rispondere? Cosa mi è successo, non riesco a capire un cazzo.
«Va bene, Abed.» Mi metto in piedi. Barcollo per un momento. «Ah, questa preparazione atletica mi distrugge ogni volta.» Accenno una risata. L’uomo non fa caso alle mie parole, è incuriosito da quello che stringo nella mia mano, già, la cosa nella mia mano.
«Quella dove l’hai trovata?» Domanda indicando un lembo della pietra che scappa dalla chiusura del mio pugno.
«I-Io colleziono pietre. È un hobby. Al quanto strano, vero?» Continuo a ridacchiare. Abed non risponde, sembra che qualcosa lo abbia destabilizzato. Chiude gli occhi, con un passo si scansa da me.
«Sarò in quel bar se hai bisogno di qualcosa.» Mi ripete.
«G-Grazie, ma non mi serve nulla.» Voglio solo andare a casa. «Buona giornata.»